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Una horror story sugli Urali: la tragedia del Passo Djatlov

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Gabriella Feronia

Il mese di ottobre si avvia al termine e inizia il conto alla rovescia per il ritorno della notte più cupa dell’anno. Halloween, forma contratta di “All Hallows’ Eve” (“vigilia di Tutti i Santi”), rappresenta una usanza, oggi ampiamente diffusa tra Stati Uniti e Europa, dall’origine antica. A discapito di quanto si possa pensare, non si tratta di una festività statunitense ma di una ricorrenza che affonda le sue radici nelle tradizioni pagane dei Celti d’Irlanda. La notte di Ognissanti ha dunque una storia lunga, che meriterebbe un approfondimento a parte, ma noi oggi ci permettiamo di sfruttarla come momento perfetto dell’anno per raccontarvi una horror story d’alta quota.

Un mistero tra gli Urali

Quella che stiamo per raccontarvi è una storia realmente accaduta. Una tragedia verificatasi in Russia nel gennaio 1959 che, a distanza di oltre 60 anni, resta ancora avvolta dal mistero. Protagonisti sono 9 giovani russi che decidono di cimentarsi in una lunga traversata sugli sci nella regione degli Urali. Una avventura tra le nevi, da cui nessuno di loro ebbe modo di fare ritorno.

Photo by Игорь Дятлов licensed under CC BY-SA 2.0 DEED (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/2.0/deed.en) – Gentechevainmontagna.it

A lanciare l’idea è Igor Dyatlov, studente di ingegneria presso il Politecnico degli Urali di Sverdlovsk (oggi Yekaterinburg), appassionato di tecnologie e di natura selvaggia. Dyatlov condivide il proposito di affrontare un viaggio di circa 300 km con gli sci da fondo con la compagna di studi Zina Kolmogorova e altri sette studenti e neolaureati. I loro nomi sono Georgy Krivonishchenko, Rustem Slobodin, Nikolay Thibault-Brignoles, Yuri Yudin, Yuri Doroshenko, Aleksandr Kolevatov e Lyuda Dubinina. I 9 sono esperti sciatori di fondo, non nuovi a esperienze di campeggio invernale. Il progetto viene presentato al club sportivo del Politecnico, che lo approva e aggiunge a sorpresa un decimo componente: il veterano della II Guerra Mondiale Semyon Zolotaryov.

Il 23 gennaio il gruppo lascia Sverdvlosk per intraprendere un lungo viaggio verso nord. Salgono a bordo di un treno, alcuni nascondendosi sotto i sedili per non comprare il biglietto, e viaggiano per 3 giorni. Arrivano quindi a Ivdel, una città all’epoca abitata essenzialmente da criminali in quanto sede di un campo di prigionia. Il viaggio prosegue in autobus e poi sul retro di un camion. Poi arriva il momento di indossare gli sci. Yudin ha un problema fisico e abbandona il gruppo, che continua l’avvicinamento alle montagne. Il proposito è raggiungere il villaggio rurale di Vizhai, nel territorio dei Mansi, popolazione indigena siberiana, e inviare un telegramma a Sverdvlosk per segnalare che tutto stesse andando bene. Il telegramma non arriva.

Dopo giorni di silenzio, su sollecitazione delle famiglie dei ragazzi, iniziano le ricerche dei 9, con il coinvolgimento di studenti del Politecnico, polizia locale, cacciatori, guardie carcerarie di Ivdel, supportati da mezzi aerei dell’esercito. Il 25 febbraio vengono trovate delle tracce del passaggio degli sci, all’indomani i resti della tenda, al di sopra del limite degli alberi sul pendio di una montagna nota come “1079” (per i Mansi “Kholat Syakhl”, Montagna Morta). La tenda è in parte sepolta dalla neve, e vuota. Sul telo si notano come dei tagli, all’interno tutto è in ordine, ci sono gli scarponi, le piccozze, e il resto dell’equipaggiamento degli sciatori, comprese macchine fotografiche e diari. C’è del cibo, disposto come se fosse pronto per essere mangiato.

A poche decine di metri dalla tenda ci sono impronte di piedi scalzi che si dirigono verso il bosco. All’indomani vengono trovati i primi corpi: quello di Krivonishchenko e Doroshenko, sotto un albero di cedro accanto a un fuoco spento, con indosso solo biancheria. L’albero ha dei rami spezzati e sul tronco si notano brandelli di pelle e vestiti. Vengono poi avvistati i corpi di Dyatlov e Kolmogorova, un po’ più in alto lungo il pendio, in direzione della tenda.

Dalle autopsie sui 4 emergono dettagli strani: Krivonishchenko ad esempio ha in bocca un pezzo di carne, staccata con un morso dalla sua mano destra. Sul suo corpo e quello di Doroshenko vi sono segni di bruciatura, oltre a lividi e graffi. Stessi particolari presenti sul corpo di Slobodin, ritrovato qualche giorno dopo, anch’egli sul pendio in direzione della tenda, con un calzino a un piede e una scarpetta di feltro all’altro e una frattura cranica. Mancano 4 corpi, che saranno ritrovati mesi dopo in una profonda buca nel bosco, coperti da metri di neve. I cadaveri presentano gravi lesioni interne e fratture craniche.

A Vasil’evič mancano lingua e occhi. L’autopsia di Dubinina, anch’essa priva di occhi, evidenzia una emorragia al ventricolo destro. Secondo il medico legale, le ferite sono paragonabili a quelle di un impatto con un’auto ad alta velocità. Sulla pelle nessun segno rilevante. Sugli indumenti viene rilevata una elevata radioattività. Nella zona si scoprono inoltre dei frammenti metallici di non chiara origine. Secondo testimonianze di abitanti della zona e di qualche alpinista, nei cieli di Ivdel più volte si sono viste sfere arancioni. Le autorità governative concludono che fossero missili. Un particolare ulteriormente strano che emerge durante le indagini è che la tenda sembri lacerata dall’interno.

Cosa accadde la notte del 2 febbraio 1959?

Qualcosa deve aver indotto i ragazzi a scappare dalla tenda dopo il calare delle tenebre. Ma cosa? Iniziamo col dire che l’indagine fu chiusa nel maggio del 1959, escludendo l’ipotesi dell’omicidio per cui era stata aperta ma senza fornire risposte precise. Si concluse “semplicemente” che i ragazzi fossero morti a causa di una forza della natura sconosciuta. E la zona della Montagna Morta fu interdetta per 3 anni.

Photo by Дмитрий Никишин under public domain – Gentechevainmontagna.it

Negli anni si sono  moltiplicate le teorie volte a spiegare l’enigma del Passo Djatlov. Abbiamo la teoria immancabile degli UFO, come altra immancabile è il presunto attacco di uno Yeti. E ancora l’idea che il gruppo si sia ritrovato in un’area destinata ai test di armi segrete sovietiche. Secondo alcuni i i 9 furono uccisi da spie americane. O da cacciatori Mansi. Vi è poi la particolare teoria degli ultrasuoni causati dal vento che avrebbero generato terrore e indotto il gruppo a una fuga senza logica apparente. E ancora la teoria della follia improvvisa dovuta al consumo di funghi allucinogeni o alcol non di qualità (confutate dalle prove tossicologiche).

A distanza di decenni, la teoria che sembra maggiormente sostenuta da studi scientifici è quella della valanga. Ipotesi considerata fin dall’inizio dagli investigatori ma esclusa per almeno 2 ragioni, quali la mancanza di tracce di smottamento e la scarsa pendenza del pendio su cui era posizionata la tenda. A seguito di forte pressione mediatica, nel 2019 le autorità riaprirono il caso, concentrandosi su tale ipotesi.

Furono fatti nuovi rilievi e il Pubblico Ministero Andrei Kuryakov, ipotizzò che i ragazzi avessero “tagliato” il pendio per creare una sorta di buca in cui posizionare la tenda e proteggerla dai venti. Ore dopo la tenda potrebbe essere stata raggiunta e parzialmente sommersa da una piccola lastra di neve scivolata dal pendio. Nel timore del distacco di una valanga più ingente, il gruppo potrebbe essersi dato alla fuga. La valanga non arrivò, ma loro, preda del buio e probabilmente di un blizzard, non riuscirono a ritrovare la via della tenda.

A sostegno di tale teoria, nel 2021 è stato pubblicato un articolo scientifico in cui viene descritta, attraverso una simulazione realizzata con le tecnologie digitali del film Disney “Frozen”, la potenziale dinamica della valanga. Ma la teoria resta teoria. Nessuno saprà forse mai cosa successe precisamente quella notte.

Consigli horror per Halloween: la storia del Passo Djatlov è raccontata nel documentario “Il passo del diavolo” disponibile a noleggio su Youtube.

Gabriella Feronia

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