Se vi dicessimo “lago” e “mistero” quale sarebbe il vostro primo pensiero? Probabilmente la mente correrebbe rapida a Loch Ness, lo specchio d’acqua dolce delle Highland scozzesi, luogo di molteplici presunti avvistamenti del mitico Nessie. Oggi vogliamo raccontarvi di un mistero lacustre meno noto ma altrettanto affascinante. Il mistero di un lago himalayano caratterizzato da particolari presenze. Non stiamo parlando di creature dalle sembianze similari a draghi o dinosauri, ma di qualcosa di ben diverso. Il suo nome originale è Roopkund, ma è ormai noto in tutto il mondo come il “lago degli scheletri”.
Il misterioso lago degli scheletri d’Himalaya
Il lago Roopkund si trova nello stato indiano dell’Uttarakhand, non lontano dal confine cinese, incastonato tra le vette d’Himalaya a una quota di circa 5000 metri. Per le sue dimensioni si potrebbe definirlo un laghetto, se non una pozza. Di origine glaciale, ha un diametro di appena 40 metri e una profondità massima di 2 metri. Per circa 11 mesi l’anno la sua superficie gela, e viene ricoperta dalle nevi. Considerata la zona impervia e disabitata in cui si colloca, le sue limitate dimensioni e il fatto di mimetizzarsi per gran parte dell’anno con l’ambiente innevato circostante, è rimasto a lungo una località se non sconosciuta, nota a pochi locali.
Nel 1942 però è improvvisamente divenuto oggetto di attenzione internazionale. Nel pieno della II Guerra Mondiale, una guardia forestale britannica di pattuglia nella zona si imbatté in questo laghetto d’altissima quota, scorgendone sulle sponde innumerevoli scheletri. Centinaia. Ancora oggi il numero resta incerto, se ne stimano oltre 500 tra quelli presenti sulle sponde e quelli accolti dalle acque del bacino. Alcuni presentano ancora visibili capelli, unghie, brandelli di carne ben conservata e resti di indumenti.
Una scena decisamente macabra che ha fatto guadagnare al bacino d’acqua dolce il soprannome di “lago degli scheletri”. Da dove arrivano tutti quei resti umani? Come sono morte quelle persone e in quale epoca? Domande rimaste senza risposta per oltre mezzo secolo, che hanno fornito spunto al fiorire di diverse congetture.
Il mistero è rimasto insoluto a lungo (e come vedremo, non si può neanche definirlo totalmente risolto) a causa di difficoltà incontrate dagli studiosi, quali la frequente caduta di frane che rende la zona poco sicura e l’alterazione del sito nel corso degli anni. Nonostante la posizione non propriamente comoda, il lago ha ricevuto numerosi visitatori negli ultimi decenni, escursionisti o pellegrini impegnati lungo la rotta per la montagna sacra Nanda Devi. E qualcuno si è divertito a trafugare reperti o a spostare le ossa, talvolta impilandole tra loro.
Tra le prime ipotesi sorte subito dopo la “scoperta” del 1942, troviamo quella dell’appartenenza dei resti a un manipolo di soldati giapponesi. Idea che spinse i britannici a inviare sul posto un gruppo di investigatori per appurare se l’incidente potesse essersi verificato durante qualche movimento segreto dei nemici. Ma ci si rese conto ben presto che i resti non potessero essere di epoca così recente.
Altra ipotesi fu che si trattasse di resti di soldati indiani impegnati nella Guerra dogro–tibetana (1841-1842) che, di ritorno dal Tibet si sarebbero persi tra le montagne himalayane, trovandovi la morte. Ma le prime datazioni al radiocarbonio dei reperti, realizzate negli anni Sessanta, portarono a escludere anche tale pista. I resti furono orientativamente collocati in un ampio spazio temporale, tra il 12° e il 15° secolo.
Ci fu anche chi elaborò la teoria dell’utilizzo del lago come cimitero a seguito di una epidemia che colpì qualche popolazione della zona. E addirittura alcuni antropologi suggerirono l’ipotesi di un suicidio collettivo rituale. Nei villaggi della zona si ritrova una canzone popolare che racconta di una grandinata di forza inusitata, “dura come il ferro”, scatenata dalla dea Nanda Devi, che causò la morte di molte persone nella zona del lago. Quella che tra le varie teorie può apparire la più leggendaria, chiamando in causa le divinità celesti, ha in realtà trovato parziale conferma a seguito di uno studio scientifico realizzato agli inizi degli anni 2000.
Cosa dice la scienza
Nel 2004 un team di scienziati europei e indiani si recò nella zona del Roopkund nell’ambito di una missione firmata National Geographic, per raccogliere materiale da sottoporre a test genetici. L’analisi del DNA consentì di identificare due categorie di individui: bassi e alti. La datazione al radiocarbonio mise in discussione i dati degli anni Sessanta, facendo risalire i reperti al IX secolo d.C. circa. Ma l’elemento se vogliamo più interessante risultante dalle analisi forensi fu la presenza di fratture evidenti sul retro dei teschi, testimonianza di una morte dovuta a un forte trauma cranico. Ma cosa potrebbe aver causato tali ferite?
Gli esperti esclusero frane e valanghe, identificando la potenziale causa in un oggetto di forma arrotondata delle dimensioni di una palla da cricket. L’assenza di ferite sul resto del corpo portò a ipotizzare che tale oggetto dovesse essere caduto dall’alto. Considerato l’elevato numero di vittime, gli oggetti in caduta libera dal cielo avrebbero dovuto essere innumerevoli. Ecco che la scienza si trovò concorde con la tradizione locale sull’ipotesi di una potente grandinata.
Lo studio attribuì anche una potenziale identità alle vittime. Sulla base della presenza di anelli, scarpe in cuoio, lance e bastoni si ipotizzò che si potesse trattare di un folto gruppo di pellegrini impegnati nel Raj Jat, pellegrinaggio al Nanda Devi che viene svolto per tradizione ogni 12 anni. Dunque lo studio sembrò confermare l’idea di una morte collettiva, avvenuta in simultanea.
Nel 2019 un nuovo studio, pubblicato su Nature, ha scombinato le carte. A seguito di ulteriori analisi del DNA, un tema internazionale ha concluso che le vittime avessero provenienze diverse e che le morti non furono tutte simultanee. Su 38 scheletri utilizzati come campione (23 maschi e 15 femmine), si è concluso che 23 delle vittime fossero originarie dell’Asia meridionale, 14 del Mediterraneo orientale e una del sud-est asiatico. In termini di epoca della morte, gli scheletri dell’Asia meridionale sono risultati risalire al 600-900 d.C., un ampio periodo storico, con decessi dunque causati plausibilmente da più eventi. Tutti gli altri a un periodo compreso tra il 1600 e il 1900.
Tra questi due gruppi principali, distinti nello spazio e nel tempo, sono anche state rilevate attraverso analisi isotopiche, differenze in termini di dieta. L’assenza di patogeni rilevati nei campioni ha portato a escludere la pista dell’epidemia. Per il gruppo più antico (quello proveniente dall’Asia meridionale) è stata confermata l’ipotesi dello studio del 2004 di una morte collettiva, legata a un evento calamitoso, durante un pellegrinaggio al Nanda Devi. Cosa ci facessero invece a quella quota gli individui provenienti dal Mediterraneo e dal sud-est asiatico, e come siano morti, resta ancora un mistero.